Rifiuti in movimento. Conoscere i fabbisogni del territorio per una politica regionale davvero responsabile
di Donato Berardi e Nicolò Valle
Ogni anno, in Italia, si producono qualcosa come 30 milioni di tonnellate di rifiuti urbani. Per dare una grandezza del fenomeno possiamo dire che equivalgono a qualcosa come 15 milioni di automobili di media cilindrata.
Numeri che, quando vengono resi noti, ci impressionano tanto come opinione pubblica che come singoli individui, in qualche misura chiamati in causa per i nostri quotidiani gesti di buttare o scartare.
Tuttavia, lo stesso stupore non scatta quando vengono comunicati i dati relativi ai cosiddetti rifiuti "speciali", quelli cioè che derivano da attività economiche – quali la produzione industriale – non assimilate al servizio pubblico e dalle attività di recupero e smaltimento dei rifiuti. Eppure gli "speciali"toccano i 140 milioni di tonnellate annue, quasi 5 volte quelli urbani. Per un'ampia parte (40%) si tratta di rifiuti da costruzione o demolizione.
Ma come deve avvenire lo smaltimento e l'eventuale recupero? Per quanto riguarda i rifiuti di origine "urbana", ogni Regione italiana è tenuta a garantire sia l'autosufficienza nello smaltimento di quelli non pericolosi sia la prossimità dello smaltimento e del recupero di quelli indifferenziati. Ciò significa che devono essere presenti sul territorio regionale infrastrutture e impianti in grado di soddisfare queste condizioni.
In questa maniera, si intende ridurre la circolazione dei rifiuti sul territorio, limitando al massimo i disagi e l'inquinamento che derivano dal trasporto.
Invece, per quanto concerne i rifiuti "speciali", essi possono circolare liberamente, così da essere avviati a recupero in impianti idonei, secondo una logica di mercato.
Un'affermazione vera ma non del tutto definitiva. Infatti, dalla lettura delle leggi in vigore (il Testo Unico Ambientale o TUA) emerge anche che lo smaltimento e il recupero devono avvenire quanto più possibile in "prossimità" del luogo di produzione – come accade per quelli "urbani" – nell'ottica di minimizzare gli spostamenti dei rifiuti.
Se ne desume che laddove la gestione dei rifiuti non abbisogna di impianti specifici, ogni territorio dovrebbero essere in grado di assicurare una destinazione finale ai rifiuti che non possono essere riciclati, per evitare di scaricare su altri territori le "esternalità" ambientali.
Una affermazione, quest'ultima, che tuttavia deve fare i conti con la realtà di un Paese, il nostro, carente di impianti. Una condizione che negli ultimi anni è divenuta sempre più evidente. Infatti, a seguito della ripresa industriale e, in particolare, del settore manifatturiero, i rifiuti "speciali" – non pericolosi e pericolosi – sono cresciuti in maniera sostenuta, + 12%, passando dai 124 milioni del 2013 ai quasi 139 milioni del 2017.
Con quali conseguenze? La maggior parte delle Regioni italiane è sprovvista di impianti in grado di gestire questi rifiuti e deve di conseguenza fare affidamento al mercato, chiamando impianti localizzati in altre regioni a farsi carico dello smaltimento e dell'incenerimento di questi rifiuti.
Guardiamo i numeri. Dalle stime da noi condotte, basate su dati Ispra, emerge come in Italia nel 2017 sono state gestite oltre 30 milioni di tonnellate di rifiuti (urbani e speciali) in impianti di smaltimento (discariche) o recupero energetico (inceneritori).
Se si considerano i fabbisogni regionali di smaltimento e recupero energetico, nel 2017 il bilancio di gestione chiude in passivo per circa 2,1 milioni di tonnellate; dato coerente con la somma dei rifiuti smaltiti in discarica o inceneriti all'estero (circa 1,3 milioni di tonnellate, al netto dell'import) e con quelli stoccati in attesa di essere smaltiti (circa 700 mila tonnellate).
Questi i dati in generale; ma il quadro italiano è tutt'altro che omogeneo. A casi di buon funzionamento o efficienza come quelli di Lombardia o Emilia-Romagna, dove è stata realizzata un'analisi reale dei fabbisogni di smaltimento, si alternano altri meno virtuosi o di forte criticità.
Tra questi ultimi vi è la Regione siciliana che con uno smaltimento in discarica al 73% dei rifiuti urbani ed una raccolta differenziata ferma al 22%, ha di recente inviato al Ministero una bozza di Piano regionale di gestione dei rifiuti che non prevede la realizzazione di impianti per il recupero energetico. Ma non solo. Anche Campania e Lazio soffrono grandi difficoltà, con un deficit complessivo di smaltimento e recupero energetico di 2,7 milioni di tonnellate. Se per il Lazio le maggiori criticità vengono dalla mancanza di capacità di smaltimento e avvio a recupero energetico dell'urbano, in Campania – dove la metà circa dei rifiuti urbani a smaltimento viene portata nell'unico impianto di termovalorizzazione di Acerra – le principali difficoltà di concentrano sui rifiuti di origine speciale. In questo caso il deficit è di circa 800 mila tonnellate/anno.
Nel Mezzogiorno poi, solo Sardegna, Molise e Puglia hanno gestioni non segnate da deficit di gestione.
La Lombardia, invece, in virtù della dotazione impiantistica, ha capacità per accogliere rifiuti provenienti da altre regioni per oltre 1,3 milioni di tonnellate/anno: un dimensionamento sufficiente ad assicurare il rispetto del principio di autosufficienza per i rifiuti urbani prodotti in regione ed uno spazio adeguato per i rifiuti speciali, tale da favorirne la gestione in prossimità.
Un altro interessante esempio è l'Emilia-Romagna che, forte di una ricognizione dei fabbisogni di smaltimento, assicura la possibilità di gestire all'interno degli impianti in Regione tutti i rifiuti.
Vi sono poi le oltre 700 mila tonnellate di rifiuti speciali pericolosi che sono destinate ai Paesi esteri. In questo caso alle ricadute ambientali legate alla movimentazione di rifiuto, si pone anche una questione di "strategia industriale" laddove la competitività dei cicli produttivi viene ad essere esposta al rischio di un blocco delle importazioni nei Paesi di destinazione, e comunque di una perdita di opportunità di creazione di crescita economica e occupazione nelle gestionedei rifiuti.
Senza dubbio, la conoscenza e l'analisi, anche in questo campo, divengono elementi di estrema utilità. Avere consapevolezza dei reali fabbisogni di smaltimento e recupero dei rifiuti di un territorio permetterebbe, per esempio, di calmierare i prezzi del mercato dello smaltimento e di fare fronte a situazioni di emergenza. Ma non solo. Consentirebbe di realizzare impianti di dimensioni coerenti con i fabbisogni, e quindi efficienti e sostenibili da un punto di vista economico e ambientale. Poi di sostanziare un principio di "responsabilità" e presidio delle istituzioni sui rifiuti prodotti dal territorio e di assicurare la tracciabilità del rifiuto così da garantire un elevato grado di protezione dell'ambiente e della salute pubblica.
Appare evidente come sia giunto il tempo di ripensare profondamente la gestione dei rifiuti del Paese, superando il dualismo tra rifiuti "urbani" e "speciali", e costruendo gli impianti necessari alla loro gestione.
Solo fornendo risposte adeguate – il che significa giuste e adatte alle esigenze dei diversi territori – è possibile superare le tante sindromi NIMBY ("Not In My Back Yard") che nascono quando non si affrontano con responsabilità questi temi.
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